Formats
Citation
Elsaesser, Thomas. “La cinefilia ai tempi di Facebook.” alfabeta2 21 (July–August 2012): 36–38.

La cinefilia ai tempi di Facebook

Thomas Elsaesser

Corre voce che la cinefilia sia sopravvissuta alla cosiddetta morte del cinema. Questo termine, esportato dai francesi a metà degli anni Cinquanta, definiva uno stato d’animo, un’emozione e una pratica che faceva dell’andare al cinema un’esperienza da fruire con un’aspettativa colma di gioia e trepidante attesa.

Il nuovo film di quel regista ci piacerà quanto il precedente, lo accoglieremo parlandone già come un altro capolavoro, anche se abbiamo avvertito una fitta di delusione? Quale momento più prezioso di quando siamo finalmente riusciti ad aggiungere un raro Mizoguchi o un Maurice Tourneur di recente scoperta al nostro museo immaginario?

Il termine «cinefilia» ha sempre risuonato con dolente nostalgia e ostinata devozione, con bramosia e discriminazione, evocando, perlomeno nella mia generazione, più che una semplice passione per il cinema, piuttosto un vero e proprio modo di vivere. In tutta la sua raggiante indeterminatezza, inoltre, esso è legato a una generazione di appassionati di cinema che oggi ha sessanta, settant’anni, e che perciò si sente un po’ in diritto di rimanere al centro della scena. Ancora, c’è da dire che, nel tempo, questa parola è stata tanto esaltata quanto screditata, compreso un periodo, durante i politicizzati anni Settanta(footnote : 1), in cui aveva acquisito connotati pesantemente peggiorativi, se non addirittura sprezzanti. Anche negli Sessanta è stata oggetto di costanti controversie: si ricordi la polemica tra Andrew Sarris e Pauline Kael sulla teoria degli autori, quando, se per definire il proprio apprezzamento per una screwball comedy hollywoodiana si parlava di «esperienza cinefila», si veniva tacciati di antiamericanismo2. Il suo implicito snobismo cosmopolita l’ha resa più volte oggetto di scherno, nonché uno dei bersagli preferiti delle battute di Woody Allen, come nella famosa scena autoironica fuori dal Waverly Cinema di New York, in Io e Annie (Annie Hall3).

Ma è anche stata un marchio distintivo di devozione per gli appassionati di cinema di ogni gusto ed età, sfoggiato con orgoglio e dignità. Nel 1996, quando Susan Sontag ha denunciato «la decadenza del cinema», era chiaro che parlava, in realtà, della decadenza della cinefilia, nel senso del modo in cui i newyorkesi guardavano i film, piuttosto di cosa essi guardavano, o cosa veniva fatto dagli studios e dai registi4. La sua analisi ha messo in evidenza uno degli aspetti originari della cinefilia, ossia quello di essere sempre stato un gesto verso il cinema costruito su diverse temporalità retroattive, su un piacere permeato di rimpianto, sebbene venga percepito soltanto come piacere. I cinefili hanno sempre ceduto facilmente all’ansia della possibile perdita, al rimpianto per la pienezza sensibile e sensoriale dell’immagine di celluloide e del suo involucro architettonico, la sala cinematografica, insistendo sulla natura irrimediabilmente effimera dell’esperienza filmica.

Oggi, tuttavia, nell’epoca di internet, dei Dvd, del download e di YouTube, la cinefilia è tornata. Ci sono numeri speciali di riviste a essa dedicati, diversi libri, e più di un sito in rete. Ma si tratta del solito miscuglio di emozioni conflittuali, o essa è stata forse semplificata, edulcorata, e riconfezionata apposta per un consumo immediato?

Diciamo pure che, se non è stata riconfezionata, se non altro, è stata riadattata. Come sappiamo, generalmente questo termine viene usato nel campo dell’industria dello spettacolo per presentare uno stesso contenuto in contesti mediatici differenti, e per assegnare a un singolo prodotto usi o scopi diversi. Nel caso della Hollywood di oggi, il «riadattamento» comprende anche il cofanetto Dvd, con tutti i suoi bonus, i behind-the-scenes, o i documentari del making-of, la riedizione dello stesso film qualche anno dopo con relativo director’s cut, così come le prassi di merchandising e franchising che precedono, accompagnano e seguono la realizzazione di un imponente lungometraggio. Gli ideatori di The Matrix (USA: Andy & Larry Wachowski, 1998), o di Lord of the Rings (USA: Peter Jackson, 2001- 2003) avevano in mente i futuri giochi elettronici già al tempo delle riprese, aggiornando siti web con articoli sulla «filosofia» della trama e dei protagonisti, o facendo commenti sul significato occulto di oggetti, personaggi, e scenari in forum on-line o su facebook.

Ogni film apre così un proprio discorso o argomento di conversazione, che di volta in volta apre ad altri discorsi, dibattiti e discussioni. Anche il critico, che sia nel ruolo di cinefilo, di guida al consumatore, di paladino di determinati standard culturali, o semplicemente un fan, costituisce una parte precisa del package confezionato dallo studio. Accorta, sofisticata ed esperta, questa cinefilia «pronta all’uso» non è facile da seguire, e ancora più difficile, ora, è localizzare quello che potremmo definire il divario semiotico tra il film e lo spettatore, da cui proveniva un tempo il desiderio del cinefilo, ossia ciò che rendeva possibile una scoperta inaspettata, lo shock di una rivelazione, o ancora il gioco di anticipazione e delusione che erano parte integrante della cinefilia vecchia maniera degli anni Cinquanta e Sessanta.

Sono forse troppo negativo e nostalgico? Credo, in ogni modo, che, oltre al riadattamento da parte dell’industria cinematografica, ci sia anche un problema di riconfigurazione da parte dello spettatore. Mi riferisco alla struttura concettuale, emozionale, così come a quella temporale, che iscrivono il Dvd o il download (pirata) quali forme di cinefilia. Più legati alla domanda del mercato, certo, che alla selezione della giusta fila al cinema per poter scegliere la miglior visuale (com’era ai vecchi tempi), i nuovi atti di riconfigurazione richiedono l’abilità di raccogliere sul posto diversi tipi di simultaneità, e almeno due diversi generi di temporalità. Perché la riconfigurazione in quanto atto temporale, richiede diversi tipi di slittamenti di tempo e dislocazioni, così come un appiattimento e una spazializzazione del tempo: il nuovo cinefilo deve sapere apprezzare film provenienti da tutte le parti del mondo, abbandonando i suoi modelli di capolavoro; lei o lui devono saper godere di tutti gli anacronismi generati dal criterio di totale e istantanea accessibilità, del fatto che la storia del cinema sia ormai interamente presente qui e ora. L’uso di termini quali «film cult» o «classico» è sintomatico del tentativo di trovare un modo per far fronte all’improvvisa distanza e insieme prossimità nel momento in cui ci si imbatte continuamente col passato.

Che oggi l’oggetto del desiderio non consista più in un’esperienza immateriale, in un incontro rubato alla tirannia del tempo irreversibile, ma che possa essere toccato e tenuto in mano, che abbia la forma di un oggetto materiale, tutto ciò rende le cose ancora più intriganti? Questi dischetti argentati, lucidi, che posso riporre sulla mensola, accumulare in una intera collezione, riguardare tutte le volte che voglio, mi avvicinano forse al film, fanno delle due ore di tempo a disposizione un’esperienza più tangibile o piacevole ai sensi?

O al contrario: quel raro film di Fritz Lang, o quel prezioso lungometraggio di Quentin Tarantino non rischiano di diventare solo una cosa fra le altre, di cui possiamo disporre ormai fin troppo?

In questo senso, come in molti altri a dire il vero, la nuova cinefilia si trova ad affrontare gli stessi dilemmi cui si trovava dinnanzi la vecchia cinefilia: come gestire l’emozione dell’essere in prossimità, quella di «ardere dal desiderio», come trovare la giusta misura, i giusti parametri spaziali per i piaceri, ma anche per i rituali della cinefilia, che riescono ad essere poi condivisi, comunicati, e tradotti in parole e discorso. Poiché le forme del re-framing, che ho appena enunciato, stanno già in un’altra tensione con l’estetica dominante dell’immagine in movimento, in un costante lavoro di un-framing dell’immagine stessa, più che in una semplice rielaborazione del classico rettangolo scenico costituito dal palcoscenico, o di un quadro.

Mi riferisco, con ciò, alla preferenza che la cultura mediatica contemporanea riserva ai primissimi piani, quelli sfocati, alle panoramiche, per lo spazio 3D che si sostituisce al mio, e per l’immagine completamente senza sfondo. Stratificata digitalmente come un palinsesto o un dipinto, e immersiva come un acquario, l’immagine cinematografica oggi sembra non preoccuparsi più di assorbire lo sguardo. Piuttosto, sembra suggerire uno spazio di contatto più tattile, un modo per toccare l’immagine ed essere toccati da essa attraverso l’occhio e in special modo l’orecchio. Il contrario cioè dei tempi d’oro della mise-en-scène, dove l’arte della composizione e del fine reframing dei maestri come Jean Renoir, Vincente Minnelli o Nicholas Ray era un contrassegno di valore per i cinefili della prima generazione.

Un tempo la cinefilia veniva identificata con la focalizzazione del proprio obiettivo sul luogo, con l’unicità del momento, così come con la singolarità di uno spazio sacrale, valutando il film quasi più per lo sforzo fatto per riuscire a vederlo alla sua prima uscita al cinema o all’unica proiezione in una retrospettiva, che per la rivelazione spirituale e ontologica che portava con sé, o per il puro piacere estetico o il coinvolgimento fisico che esso prometteva a ogni proiezione.

In tutto ciò, per la facebook generation, la cinefilia sembrerebbe implicare uno stato d’animo e un corpo ancora più ambivalenti. Al posto di «trepidante attesa» (la mia cinefilia), l’agitazione del cinefilo odierno potrebbe essere meglio definita in termini di «tensione&tormento», per il fatto di trovarsi a vivere in uno stato di tensione permanente, non lineare, privo di direzioni, in cui tutto viene dato «troppo e tutto d’un tratto». Il problema qui non è tanto quello di perdere l’unicità dell’istante, quanto il contrario, ossia come riuscire a gestire un flusso che non conosce alcun punto di arresto privilegiato, e anzi va proprio a ricercare quel senso speciale di self-presence che l’amore promette e talvolta procura.

Forse i cinefili di oggi sono dunque più dolorosamente coscienti dei paradossi che la mia cinefilia si è trovata di fronte nella prassi, ma con cui, in definitiva, non si è confrontata. Vale a dire, di nuovo, quell’attaccamento per l’unicità del momento e del luogo, e cioè, in breve: per la ricerca della pienezza, che è già (come la psicanalisi ha sempre fatto notare) l’attuazione di una ricerca del tempo perduto, e quindi la consapevolezza che il singolo momento si colloca nel regime della ripetizione, della ri-presa, dell’iterazione, della serialità compulsiva, del feticismo, del frammentario e del frattale. Il paradosso è simile a quello introdotto da Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Doch alle Lust will Ewigkeit» (tutto il piacere vuole l’eternità), intendendo che il piacere deve saper guardare in faccia la mortalità, nell’eterna ripetizione del vano tentativo di combatterla.

La nostra cinefilia, a mio parere, era un discorso intrecciato con l’amore, in tutte le forme profondamente contraddittorie, narcisistiche, altruistiche, comunicative e autistiche con cui tale emozione o stato d’animo può affliggerci. I corsi di cinema nelle università, originariamente improntati su questo tipo di cinefilia da cine-club, hanno tentato di de-costruirla, demolendone due delle sue componenti chiave: politicizzazione del piacere, e psicoanalisi del desiderio. All’epoca è stato forse un compito importante, ma certo non una ricetta per la felicità. Ma la nuova cinefilia è riuscita a venire in nostro soccorso, limitando i danni e facendoci ancora una volta «diventare innocenti»? Il termine con cui vorrei cercare di guarire la ferita non è né «piacere» né juissance (o desiderio) per dirla alla maniera di Roland Barthes, ma memoria, proprio perché questa parola non è controversa come lo sono le altre due. Alla base della cinefilia di qualunque forma, direi, c’è quindi soprattutto una crisi di memoria: memoria filmica innanzitutto, ma anche la nostra concezione di memoria nel senso moderno del termine, in quanto abilità di rievocare e rivivere, per mezzo della tecnologia e delle sue tecniche di registrazione, memorizzazione e recupero dei dati.

L’ impossibilità di fare una piena esperienza del presente, l’esigenza di essere sempre coscienti di due temporalità – cosa fondamentale per un cinefilo – sono diventate una condizione culturale generalizzata. Nell’era della mobilità, siamo diventati tour-isti della vita: teniamo videocamere in mano, o direttamente in testa, per rassicurare noi stessi sul fatto che siamo noi, qui, e ora.

La nostra esperienza del presente è sempre già memoria (mediatica), e questa memoria rappresenta il rinnovato tentativo di essere presenti a noi stessi: possedere l’esperienza, in modo da possedere la memoria, in modo da possedere il proprio io. Si tratta di un nuovo ruolo per i cinefili della facebook generation, forse perfino di un nuovo status culturale, di collezionisti e archivisti, non tanto delle nostre effimere esperienze cinematografiche, quanto delle nostre non meno effimere esperienze personali.

La nuova cinefilia del download, dei file di swap, del campionamento, della riscrittura e del rimontaggio di trame, generi e personaggi, dà un nuovo volto all’ansioso amore per la perdita e per la pienezza, se possiamo permetterci di considerare per un momento questa cinefilia fuori dai criteri di copyright, pirateria e uso corretto.

In e attraverso le manipolazioni testuali, ma anche attraverso la scelta dei dispositivi di archiviazione, la tecnologia permette oggi al cinefilo di ricreare quel senso di unicità, per il luogo, per l’occasione e per il momento, così essenziali a tutte le forme di cinefilia, anche quando essa è colta da ripetizione compulsiva, o dalla sensazione di essersi persa nel cyberspazio.

Questo lavoro di preservazione e ripresentazione, come ogni lavoro che implichi la memoria e l’archivio, è contrassegnato dal frammento e dalle sue invocazioni-feticcio. Ebbene, il termine frammento è da intendersi qui in un senso particolare.

Perché ogni film non è solo un frammento di quella totalità di immagini in movimento che ha sempre già oltrepassato la nostra comprensione, la nostra conoscenza, perfino il nostro amore, ma è un frammento anche nel senso che rappresenta solo una parte, un aspetto, una delle forme finali, fra le forme potenzialmente illimitate, attraverso cui le immagini del nostro patrimonio cinematografico circolano ora nella cultura. Là fuori, the love that never lies (la cinefilia come amore per l’originale, per l’autenticità, per l’indexicalità del tempo, dove ogni performance cinematografica è un evento unico) si trova oggi a competere con the love that never dies, dove la cinefilia, rilanciata dal fandom e dai classici di culto, si nutre di nostalgia e ripetizione, facendo riscorso alle copie video, e ora al Dvd o al download. Oltre a feticizzare la performatività tecnologica delle immagini e dei suoni rimasterizzati in formato digitale, questo tipo di amore ha riabilitato anche il found footage, tecnica considerata fino a poco tempo fa come mera porcheria e immondizia. La nuova cinefilia sta dunque trasformando l’illimitato archivio della nostra memoria mediatica, compresi gli scarti poco amati e i film o i programmi caduti nel dimenticatoio, in clip, extra e bonus potenzialmente desiderabili e di valore: a riprova del fatto che la cinefilia non è soltanto una tensione amorosa, ma può sempre trasformarsi in una gioiosa perversione.

Traduzione dall’inglese di Maddalena Bordin

Notes

1

Nel suo saggio sulla cinefilia, Paul Willemen fa espressamente riferimento a questa severità dei toni, e fa accenno a questo dissenso. Si veda Through the Glass Darkly: Cinephilia Reconsidered, in P. Willemen, Looks and Frictions. Essays in cultural studies and film theory, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press 1994, pp. 223-257.

2

La polemica tra Andrew Sarris e Pauline Kael può essere studiata in: A. Sarris, Notes on the Auteur Theory, in, Film Culture, 27 (1962-63), pp. 1-8; P. Kael, Circles and Squares, «Film Comment», 16/3, 1963, pp. 12-26. Per i riferimenti biografici su Sarris, si veda: www.dga.org/news/v25_6/feat_sarris_schickel.php3

3

Annie Hall (Woody Allen, Usa 1977): «Abbiamo visto l’ultimo film di Fellini, martedì scorso. Non è dei suoi migliori. Gli manca una struttura coerente. Sai, hai la sensazione che non lo sappia neanche lui quello che vuole dire. Naturalmente, io, per me, l’ho sempre considerato un mestierante, in sostanza. D’accordo, La strada era un grosso film. Grande, soprattutto, per l’uso che fa dell’energia negativa. Ma questo semplice nucleo…Prendi Giulietta degli spiriti, o prendi sennò il Satyricon. Per me, io li trovo incredibilmente indulgenti. Rendo l’idea? Fellini è, per me, uno dei registi più indulgenti. Sul serio…».

4

S. Sontag, The Decay of Cinema, «The New York Times», 25 febbraio 1996.